Non sapevo nel momento in cui l’ho comprato (grazie ai titoli tradotti che sono spesso alquanto devianti) che questo libro fosse proprio quello che descrive la famosa tecnica del “time out” o momento di riflessione che dir si voglia, in cui si allontana il bambino dalla scena che ha scatenato il capriccio, la scenata o la cattiva azione e lo si aiuta a calmarsi prima per poi invitarlo alla riflessione sull’accaduto.
Personalmente avevo cominciato già di mio, senza essere a conoscenza di questo metodo, ad applicarlo con Orlando nel momento in cui i suoi giochi o le sue manifestazioni diventavano pericolose per sè o per gli altri o quando io proprio non ne potevo più della sua iperattività (diciamo pure a volte aggressività).
Onestamente però non so quanto valido sia il metodo (infatti anche noi qui a casa praticamente non lo si fa più) in quanto mi pare che l’allontanamento, pur a fin di bene, del bambino sia sempre una forma di rifiuto-abbandono in un momento estremamente delicato come la crisi, cioè proprio quando il bambino perde il controllo di sè e si guarda intorno per trovare altrove, soprattutto nel genitore, un limite, un freno, un contenimento della sua incontrollabile emozione. Allontanarsi o allontanarlo è come dire “le tue forti emozioni mi fanno paura e non so come gestirle quindi è meglio che ci separiamo”. Se però non lo sappiamo fare noi, gestire le emozioni anche quando sono troppo esuberanti che ci spaventano, da chi altri i bambini lo possono imparare?
Un’amica psicologa dell’età evolutiva a cui spesso chiedo consiglio mi ha suggerito invece il metodo migliore per affrontare i momenti di crisi, una combinazione di azione e parola che assicurano il massimo rispetto del bimbo trasformando la distruttività del momento di crisi in una occasione di evoluzione della sua emotività tramite la comprensione delle sue stesse emozioni. La parte di azione si esplica nel contenimento fisico del bambino tramite un fermo abbraccio (da cui è normale a volte si divincoli anche animatamente) mentre la parola mette in atto l’empatia con cui il genitore dà voce alle emozioni del bimbo parlando per lui (sempre in prima persona), prendendo cioè le sue veci e nominando le emozioni che sono in gioco in quel momento (ad esempio “come sono arrabbiato in questo momento” oppure “spaccherei tutto da quanto sono arrabbiato adesso”o ancora “sono così triste che piango forte forte” oppure “sono così stanco adesso che non ce la faccio più e … etc”). Quando lo faccio con Orli mi sento un po’ strana e non è facile, ma so, almeno ci spero tanto, che senta che sono lì con lui e per lui in quei momenti e prima o poi riuscirà lui a dare un nome alle sensazioni e più avanti a dominarle, sviarle, calmarle.